“Lo sento ancora, anche ora che è tutto spento”. E il riferimento era al fischio angosciante dei tubi dell’ossigeno che tenevano in vita i pazienti malati di Coronavirus. A dirlo, in un’intervista rilasciata nel mese di giugno al Corriere della Sera, era stato Carlo Mosca, primario reggente del pronto soccorso dell’ospedale di Montichiari oggi ai domiciliari con l’accusa di aver fatto iniezioni letali a due pazienti di 61 e 80 anni.
Nella stessa intervista, Mosca aveva raccontato la sua battaglia “per salvare più vite possibili”, la fatica in trincea, i turni estenuanti, le telefonate alla moglie solo dopo le 21.30 (“a volte non telefonavo”) e “la testa sempre all’ospedale, ai pazienti, al da farsi”, trascurando la figlia. Una fatica comune a molti operatori sanitari, che in primavera si erano trovati a combattere in prima linea, a mani nude, contro il nemico terribile e allora sconosciuto del virus.
Mosca, originario di Cremona, aveva lavorato al Civile e poi a Mantova. Nel 2017 era approdato a Montichiari e l’anno dopo era diventato primario reggente del Pronto soccorso. Era toccato a lui gestire in quell’ospedale la prima ondata di Coronavirus, quando i posti letto non bastavano mai, la paura era tanta e i pazienti – arrivati in condizioni disperate – morivano a decine.
Ora, però, il primario è accusato di omicidio volontario. E l’ombra terribile – ovviamente da dimostrare – è quella che abbia iniettato farmaci letali ai pazienti non per salvarli ma per ucciderli “per liberare letti”, come si leggerebbe in un sms di un infermiere a un collega. “Anche a voi ha chiesto di somministrare i farmaci senza intubarli? Io non ci sto a uccidere questi solo perché vuole liberare i letti”, così – secondo quanto riporta il Corriere della Sera – recita in un messaggio agli atti dell’ordinanza.
Veramente è andata così? Non lo sappiamo, speriamo di no e l’accusato nega, riferendo di non aver mai somministrato quelle cure. Sarà chi di dovere a stabilire la verità.
La certezza – comunque, a prescindere da come si concluderà questa vicenda – è che le proporzioni della tragedia che si è consumata in tutto il Bresciano in primavera sono molto maggiori di quanto coloro che non ne sono stati toccati direttamente hanno percepito. E il dramma ha lasciato ferite profonde, anche a livello psicologico, su medici, infermieri e parenti delle vittime.
Bsnews.it
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